Termine perentorio e mancato rispetto da parte del giudice dei limiti minimo e massimo previsti dalla legge (caso di termine per riassunzione a seguito di pronuncia di incompetenza)

In base al combinato disposto dall’art. 50 c.p.c., comma 1, e art. 307 c.p.c., comma 3 – nel testo riformato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69 -, qualora la legge attribuisca al Giudice il potere discrezionale di assegnare alle parti termini perentori per il compimento di attività processuali, salvo espressa deroga disposta dalle singole disposizioni di legge, l’esercizio del potere da parte del Giudice deve conformarsi al rispetto del limite imposto dai termini minimo – un mese – e massimo – tre mesi – previsti dalla norma generale di cui all’art. 307 c.p.c., comma 3.

Qualora il Giudice, con il provvedimento che dichiara la propria incompetenza, assegni alle parti, ai sensi dell’art. 50 c.p.c., comma 1, un termine per la riassunzione, rispettivamente, inferiore o superiore a quello minimo e massimo stabilito dall’art. 307 c.p.c., comma 3, il provvedimento deve ritenersi tamquam non esset, in quanto improduttivo di effetti idonei a condizionare l’attività processuale delle parti. Ne consegue che – analogamente alla ipotesi in cui il Giudice si sia astenuto dall’esercitare il potere discrezionale – trova applicazione sussidiaria esclusivamente il termine perentorio massimo previsto dalla norma di legge (fissato in tre mesi dalla comunicazione della decisione di incompetenza dall’art. 50, comma 1, in corrispondenza al termine massimo indicato dall’art. 307 c.p.c., comma 3).

 

Cassazione civile, sezione terza, sentenza del 24.4.2019, n. 11204