L’ordinanza del giudice civile che ha reputato competente un giudice penale del medesimo ufficio non è impugnabile con regolamento di competenza. Lectio Magistralis delle Sezioni Unite sull’interpretazione.
Le Sezioni Unite civili, pronunciando su questione di massima di particolare importanza, hanno affermato il principio di diritto secondo il quale l’ordinanza del giudice civile che abbia reputato competente un giudice penale del medesimo ufficio non è impugnabile con regolamento di competenza ai sensi dell’art. 42 c.p.c., atteso che la distinzione tra le varie sezioni – anche civili e penali – del medesimo tribunale si riferisce a mere articolazioni interne di un unico ufficio, con la conseguente esclusione della possibilità di qualificare le rispettive attribuzioni come “questione di competenza” nel processo civile, dovendosi altresì escludere l’applicazione, sia in via diretta, sia in via analogica, delle soluzioni normative sancite dall’art. 28 c.p.p.
[massima ufficiale]
Quanto all’art. 12 preleggi, va affermato che il giudice non crea il diritto, atteso che le scelte di politica del diritto sono riservate al legislatore e al giudice compete solo interpretare la norma entro i limiti delle opzioni ermeneutiche più corrette dell’enunciato. La funzione assolta dalla giurisprudenza è quindi di natura dichiarativa. Sicché l’attività interpretativa giudiziale è segnata, innanzitutto, dal significante testuale della disposizione..
I criteri interpretativi sono dettati dall’art. 12 preleggi, mentre pur quando una norma, o un sistema di norme, si prestino a diverse interpretazioni, tutte plausibili, dovere primario dell’interprete, e specie del giudice, è di perseguire l’interpretazione più corretta e non una qualsiasi di quelle che il testo consente; certo essendo, altresì, che il giudice non crea il diritto, ma opera secondo i criteri ermeneutici noti ed entro i limiti del diritto positivo, atteso che le scelte di politica del diritto sono riservate al legislatore ed al giudice compete solo di interpretare la norma nei limiti delle opzioni ermeneutiche più corrette dell’enunciato.
E’ in tal senso, pertanto, che la funzione assolta dalla giurisprudenza è di natura “dichiarativa”, giacchè riferita ad una preesistente disposizione di legge, della quale è volta a riconoscere l’esistenza e l’effettiva portata, “con esclusione formale di un’efficacia direttamente creativa”.
Sicchè, l’attività interpretativa giudiziale è segnata, anzitutto, dal limite di tolleranza ed elasticità dell’enunciato, ossia del significante testuale della disposizione che ha posto, previamente, il legislatore e dai cui plurimi significati possibili (e non oltre) muove necessariamente la dinamica dell’inveramento della norma nella concretezza dell’ordinamento ad opera della giurisprudenza stessa.
Secondo l’art. 12, comma 2, delle citate disposizioni preliminari, quando una controversia non può essere decisa con una specifica disposizione – da interpretarsi, ai sensi dell’art. 12, comma 1, secondo i canoni dell’interpretazione letterale, sistematica, teleologica e storica – il giudice ricorre all’analogia legis, ovvero estende al caso non previsto la norma positiva dettata per casi simili o materie analoghe.
E se, ciò nonostante, permane il dubbio interpretativo, troverà applicazione l’analogia iuris, ossia l’applicazione dei principi generali dell’ordinamento giuridico.
In tal modo, il ricorso all’analogia si risolve in un meccanismo integrativo dell’ordinamento che permette al giudice di decidere comunque, anche in presenza di una lacuna normativa.
L’interpretazione, o applicazione, analogica o per analogia è costituita dunque dal procedimento mediante il quale chi interpreta ed applica il diritto può sopperire alle eventuali deficienze di previsione legislativa (c.d. lacuna dell’ordinamento giuridico) facendo ricorso alla disciplina normativa prevista per un caso “simile”, ovvero per “materie analoghe”: ciò, in forza dei principi fondamentali del nostro ordinamento, secondo cui il giudice deve decidere ogni caso che venga sottoposto al suo esame (“obbligo di non denegare giustizia”) e deve assumere la relativa decisione applicando una norma dell’ordinamento positivo (“obbligo di fedeltà del giudice alla legge” ex art. 101 Cost., comma 2).
Segnatamente, quindi, per poter ricorrere al procedimento per analogia, è necessario che: i) manchi una norma di legge atta a regolare direttamente un caso su cui il giudice sia chiamato a decidere; li) sia possibile ritrovare una o più norme positive (c.d. analogia legis) o uno o più principi giuridici (c.d. analogia iuris), il cui valore qualificatorio sia tale che le rispettive conseguenze normative possano essere applicate alla situazione originariamente carente di una specifica regolamentazione, sulla base dell’accertamento di un rapporto di somiglianza tra alcuni elementi (giuridici o di fatto) della vicenda regolata ed alcuni elementi di quella non regolata: costituendo il fondamento dell’analogia la ricerca del quid comune mediante il quale l’ordinamento procede alla propria “autointegrazione” (così ancora la menzionata decisione).
Onde l’analogia postula, anzitutto, che sia correttamente individuata una “lacuna”, tanto che al giudice sia impossibile decidere, secondo l’incipit del precetto (“se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione…”); l’art. 12, comma 2, preleggi si spiega storicamente soltanto nel senso di evitare, in ragione del principio di completezza dell’ordinamento giuridico, che il giudice possa pronunciare un non liquet, a causa la mancanza di norme che disciplinino la fattispecie.
La regola, secondo cui l’applicazione analogica presuppone la carenza di una norma nella indispensabile disciplina di una materia o di un caso (cfr. art. 14 preleggi), discende dal rilievo per cui, altrimenti, la scelta di riempire un preteso vuoto normativo sarebbe rimessa all’esclusivo arbitrio giurisdizionale, con conseguente compromissione delle prerogative riservate al potere legislativo e del principio di divisione dei poteri dello Stato.
Onde non semplicemente perchè una disposizione normativa non preveda una certa disciplina, in altre invece contemplata, costituisce ex se una lacuna normativa, da colmare facendo ricorso all’analogia ai sensi dell’art. 12 preleggi.
Ciò tanto più quando si tratti di estendere l’applicazione di una disposizione specifica oltre l’ambito di applicazione delineato dal legislatore, ovvero di applicarla “analogicamente” a vicenda concreta da questi non contemplata ed in presenza di diversi presupposti integrativi della fattispecie.
Cassazione civile, sezioni unite, sentenza del 6.12.2021, n. 38596