Responsabilità della struttura sanitaria: la causalità deve essere provata dal paziente. Se la causalità resta ignota, anche dopo c.t.u., la responsabilità non è della struttura.

L’art. 1218 c.c. solleva il creditore dell’obbligazione che si afferma non adempiuta dall’onere di provare la colpa del debitore inadempiente, ma non dall’onere di provare il nesso di causa tra la condotta del debitore e il danno di cui domanda il risarcimento. Così nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere dell’attore dimostrare l’esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui si chiede il risarcimento. Tale onere va assolto dimostrando, con qualsiasi mezzo di prova, che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, la causa del danno.

Mutuando la disciplina riferita alle strutture sanitaria, ne discende, con riferimento alla responsabilità della struttura (atteso che, all’esito dell’entrata in vigore della legge Gelli‐Bianco 8 marzo 2017, n. 24, la responsabilità del medico è qualificata come aquiliana), che non basta che il paziente dimostri il contratto e deduca l’insorgenza della patologia in conseguenza delle cure prestate, ma è necessario che dia prova della concreta riconduzione dell’insorgenza della lesione alla condotta, attiva od omissiva, dei medici che operano in quella struttura. Cosicché, quando le cause rimangano ignote o comunque incerte, anche all’esito dell’espletamento di una consulenza tecnica d’ufficio, specie con riguardo alla verificazione di un esito infausto, la responsabilità non potrà essere ascritta alla struttura convenuta.

Tribunale di Lecce, sentenza del 6.10.2020