Pur potendosi individuare standard di durata media ragionevole per ogni grado, occorre una valutazione sintetica e complessiva dell’unico processo

Pur essendo possibile individuare degli “standard” di durata media ragionevole per ogni fase del processo, quando quest’ultimo si sia articolato in vari gradi e fasi, quanto agli effetti dell’apprezzamento del mancato rispetto del termine ragionevole, di cui all’art. 6, par. 1, della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, occorre avere riguardo all’intero svolgimento del processo medesimo, dall’introduzione fino al momento della proposizione della domanda di equa riparazione, dovendosi cioè addivenire ad una valutazione sintetica e complessiva dell’unico processo da considerare nella sua complessiva articolazione (pertanto non è corretto considerare quale durata ragionevole per il giudizio d’appello quella standard di due anni, senza considerare però che nella specie quest’ultimo grado di merito non era stato ancora definito, dovendosi in tal caso invece valutare la durata complessiva del giudizio presupposto sino alla data della pronuncia, per accertare in concreto la ritenuta modestia del ritardo e liquidare l’indennizzo in base alla differenza fra il tempo trascorso e quello, inferiore, che sarebbe stato ragionevole per compiere le medesime attività processuali, operando una giusta proporzione tra quest’ultimo e lo standard temporale di definizione dell’intero giudizio).

 

Cassazione civile, sezione sesta, sentenza del 26.10.2016, n. 21651

…omissis…

Con l’unico motivo di ricorso (rubricato violazione e falsa applicazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 e dell’art. 6, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo), la ricorrente si duole del mancato riconoscimento in suo favore di un indennizzo per ogni anno di ritardo, sostenendo che le ragioni addotte dalla Corte d’appello, e segnatamente quella relativa alla minima entità del ritardo, sarebbero del tutto inidonee a giustificare il mancato riconoscimento di ogni indennizzo.

Parte ricorrente richiama la giurisprudenza di questa Corte secondo cui il giudice di merito, accertata la violazione del termine ragionevole di durata del processo, deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale ogni qual volta non ricorrano circostanze particolari che lo facciano positivamente escludere, danno che, a sua volta, non è escluso dall’esito reiettivo della domanda, salvo l’ipotesi di lite temeraria.

Quindi, sostiene che l’essere di stretto diritto la questione oggetto del giudizio presupposto e l’assenza di problemi d’istruzione probatoria, così come l’anticipazione delle spese da parte del difensore, non sono elementi idonei ad escludere il paterna d’animo connesso alla pendenza del giudizio. Quanto alla posta in gioco, conclude, la sua modestia è idonea a incidere soltanto sulla misura e non anche sull’esistenza del diritto ad un equo indennizzo.

Il motivo di ricorso è fondato nei limiti che seguono, nel senso che la Corte territoriale è incorsa in una falsa applicazione dei precedenti di questa Corte in materia di frazionamento della domanda di equa riparazione.

In essi si afferma che pur essendo possibile individuare degli “standard” di durata media ragionevole per ogni fase del processo, quando quest’ultimo si sia articolato in vari gradi e fasi, quanto agli effetti dell’apprezzamento del mancato rispetto del termine ragionevole, di cui all’art. 6, par. 1, della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, occorre avere riguardo all’intero svolgimento del processo medesimo, dall’introduzione fino al momento della proposizione della domanda di equa riparazione, dovendosi cioè addivenire ad una valutazione sintetica e complessiva dell’unico processo da considerare nella sua complessiva articolazione (Cass. n. 23506 del 2008; conformi, Cass. n. 14786 del 2013 e Cass. n. 15974 del 2013).

Nello specifico, la Corte territoriale, pur avendo esattamente premesso che occorreva far riferimento – “all’intero processo così come al tempo di proposizione della domanda si era effettivamente sviluppato e svolto”, al momento di verificare la violazione ha considerato quale durata ragionevole per il giudizio d’appello quella standard di due anni (v. pag. 3 decreto impugnato), senza considerare però che nella specie quest’ultimo grado di merito non era stato ancora definito (come premesso nella narrativa del provvedimento). In tal modo la Corte capitolina non si è avveduta di confrontare tra loro due dati disomogenei, ossia il termine (li due anni entro cui di regola va definito il giudizio d’appello, con quello inferiore in cui era stata svolta soltanto una parte del processo di secondo grado.

Per contro, la Corte d’appello avrebbe dovuto valutare la durata complessiva del giudizio presupposto sino alla data della pronuncia per accertare in concreto la ritenuta modestia del ritardo e liquidare l’indennizzo in base alla differenza fra il tempo trascorso e quello, inferiore, che sarebbe stato ragionevole per compiere le medesime attività processuali, operando una giusta proporzione tra quest’ultimo e lo standard temporale di definizione dell’intero giudizio.

Pertanto, il decreto impugnato va cassato con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Roma, la quale nel decidere il merito si atterrà al principio di diritto sopra illustrato (che ovviamente concerne la L. n. 89 del 2001, nel testo anteriore alle modifiche apportate dal D.L. n. 83 del 2012, convertito con modificazioni in L. n. 134 del 2012).

Il giudice di rinvio provvederà, altresì, sulle spese di cassazione, di cui questa Corte fa rimessione ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 3.

 pqm

La Corte accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione, cassa il decreto impugnato, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Roma, che provvederà altresì sulle spese di cassazione.