L’interpretazione secondo il Consiglio di Stato: il giudice non crea, ma applica.
Non può ritenersi esistente un potere del giudice di decidere una controversia a lui sottoposta facendo diretta applicazione di un principio costituzionale (c.d unmittelbare drittwirkung), anche quando non si sia in presenza di una lacuna (e cioè quando esista una normativa di legge applicabile al caso, a meno che questa normativa non sia formulata attraverso il ricorso ad un principio o a una clausola generale).
Il che trova spiegazione nella circostanza per cui, diversamente opinando, il “bilanciamento” (del principio) effettuato dal giudice (“pesando” il principio stesso con altri “principi” che con esso appaiono interferenti) finirebbe inevitabilmente per sovrapporsi a quello contenuto nella disposizione di legge (e operato dal legislatore).
Ciò vale anche nel caso in cui il giudice ravvisi nella norma di legge ordinaria un contrasto con un principio costituzionale.
E non si tratta, come pure potrebbe apparire in via di prima approssimazione, di mettere in discussione il sistema gerarchico delle fonti del diritto, e quindi la “superiorità” del principio costituzionale rispetto alla “regola” ordinaria, ma di ribadire che la “prevalenza” del primo sulla seconda (ove sia stato accertato il contrasto) deve essere sancita da una pronuncia della Corte costituzionale che darà anche l’interpretazione qualificata del principio costituzionale e del “bilanciamento” cui esso deve essere sottoposto in confronto con altri principi.
I principi certamente operano come ratio interpretativa delle norme di rango inferiore: l’interpretazione costituzionalmente conforme (o adeguatrice) dev’essere sempre preferita, fino a quando non entri in conflitto insuperabile con il testo normativo; quando questo conflitto si verifichi, il giudice ha l’onere (ove ravvisi la persistenza del contrasto) di sollevare la questione di legittimità costituzionale.
In altre parole, fintanto che il giudice riesca ad argomentare che il “bilanciamento” di interessi da lui ritenuto “conforme a Costituzione” è realizzabile attraverso una o più regole che la disposizione di legge ordinaria consente di ricavare in via interpretativa, nulla quaestio.
Ma se, invece, questo non sia oggettivamente possibile, e dunque la norma ordinaria (secondo il significato che le si può attribuire all’esito del ricorso a tutti i criteri di interpretazione: letterale, storico, logico, teleologico, sistematico) rimanga contrastante con il principio costituzionale (come interpretato dal giudice), il giudice stesso, (che percepisca tale contrasto) non ha altra strada che quella di sollevare la questione di legittimità costituzionale.
Il rischio, altrimenti ragionando, è quello di trasformare un ordinamento “di diritto scritto”, quale formalmente continua ad essere il nostro, in qualcosa di diverso, affiancando, senza che ciò trovi supporto in una modificazione formale del sistema delle fonti, al diritto “scritto” (basato sulla legge) un diritto di fonte “giurisprudenziale” (fondato sull’equità), considerato idoneo a derogare al primo ogni qualvolta le caratteristiche del caso concreto segnalino come “ingiusto” l’esito che in base ad esso dovrebbe essere sancito.
ali considerazioni trovano pedissequo riscontro nella giurisprudenza delle Corti superiori interne e internazionali.
Nella medesima direzione è, in primo luogo, orientata la giurisprudenza costituzionale che ha individuato nell’univoco tenore letterale della norma un limite all’interpretazione costituzionalmente conforme (Cort. cost 26 febbraio 2020, n. 32).
A non dissimili conclusioni giunge anche la Corte di giustizia dell’Unione Europea, la quale ha ricordato in proposito che, nell’applicare il diritto nazionale (in particolare le disposizioni di una normativa appositamente adottata al fine di attuare quanto prescritto da una direttiva) il giudice nazionale deve interpretare tale diritto per quanto possibile alla luce del testo e dello scopo della direttiva.
Tuttavia l’obbligo per il giudice nazionale di fare riferimento al contenuto di una direttiva nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme pertinenti del suo diritto nazionale trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, in particolare in quelli di certezza del diritto e di non retroattività, e non può servire da fondamento ad un’interpretazione contra legem del diritto nazionale (Corte di giustizia, Grande Sezione, 15 aprile 2008,C-268/06,v. sentenze 8 ottobre 1987, causa 80/86, K.N., Racc. pag. 3969, punto 13, nonché A. e a., cit., punto 110; v. anche, per analogia, sentenza 16 giugno 2005, causa C-105/03, P., Racc. pag. I-5285, punti 44 e 47).
Analoghe e, sotto certi profili ancora più stringenti considerazioni (in quanto relative anche alla interpretazione delle c.d. clausole generali), si rivengono nella più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, nella quale si legge che “Anche quando non si trova al cospetto di un enunciato normativo concepito come regola a fattispecie, ma è investito del compito di concretizzare la portata di una clausola generale… il giudice non detta né introduce una nuova previsione normativa. La valutazione in sede interpretativa non può spingersi sino alla elaborazione di una norma nuova con l’assunzione di un ruolo sostitutivo del legislatore. La giurisprudenza non è fonte del diritto……. Il giudice comune, nel ruolo – costituzionalmente diverso da quello del legislatore – di organo chiamato non a produrre un quid novi sulla base di una libera scelta o a stabilire una disciplina di carattere generale, ma a individuare e dedurre la regola del caso singolo bisognoso di definizione dai testi normativi e dal sistema. Una pluralità di ragioni giustifica l’indicato approccio metodologico. Il rispetto del pluralismo e dell’equilibrio tra i poteri, profilo centrale della democrazia, perché la ricerca dell’effettività deve seguire precise strade compatibili con il principio di leale collaborazione e con il dialogo istituzionale che la Corte costituzionale ha avviato con il legislatore…. Non c’è spazio, in altri termini, né per una penetrazione diretta – attraverso la ricerca di un bilanciamento diverso da quello già operato dal Giudice delle leggi – di quell’ambito di discrezionalità legislativa che la Corte costituzionale ha inteso far salvo, né per una messa in discussione del punto di equilibrio da essa indicato …La riserva espressa della competenza del legislatore si riferisce, evidentemente, al piano della normazione primaria, al livello cioè delle fonti del diritto: come tale, essa non estromette il giudice comune, nel ruolo – costituzionalmente diverso da quello affidato al legislatore – di organo chiamato, non a produrre un quid novi sulla base di una libera scelta o a stabilire una disciplina di carattere generale, ma a individuare e dedurre la regola del caso singolo bisognoso di definizione dai testi normativi e dal sistema” (cfr. Corte di Cassazione, Sezioni unite civili del 30 dicembre 2022, n. 38162).
Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza del 2.10.2023, n. 8610