Licenziamento individuale – termini impugnativa – rito “Fornero”- mutamento rito – spese processuali
L’istituto del mutamento del rito trova applicazione, di norma, in quelle controversie che, dovendo essere instaurate con ricorso al giudice, vengono invece promosse dalla parte mediante atto di citazione o viceversa, ovverosia ipotesi in cui la parte che da impulso al giudizio, adottando una certa forma per l’atto introduttivo del giudizio, “obbliga” il giudice e la controparte a dar corso agli adempimenti che quell’atto logicamente richiede, salva la possibilità che, ad un certo punto, il giudice possa riconoscere l’errore compiuto dalla parte e adottare i provvedimenti necessari affinché il processo venga rimesso sui suoi corretti binari. Alla luce di ciò, deve ritenersi che un problema di “mutamento del rito” non si debba porre nei rapporti tra rito del lavoro e rito speciale per i licenziamenti (c.d. rito “Fornero”), giacché l’atto introduttivo ha in entrambi i casi la forma di un ricorso.
Tenuto conto, della pressoché assoluta sovrapponibilità dei due modelli processuali (rito del lavoro e rito ex art. 1, commi 48 e ss. della legge n. 92 del 2012, c.d. rito “Fornero”) un eventuale provvedimento che dovesse disporre il “mutamento di rito”, e l’assegnazione ad entrambe le parti dei termini per l’integrazione degli atti introduttivi darebbe luogo ad una indebita rimessione in termini dai quali entrambe le parti sono decadute.
La pronuncia di inammissibilità resa all’esito della fase sommaria del rito c.d. “Fornero” non può comunque precludere l’esame del merito delle domande avanzate nell’ambito della fase di opposizione.
Ai fini della tempestività dell’impugnativa del licenziamento e del successivo deposito del ricorso introduttivo, occorre tenere presente che con l’esperimento del tentativo di conciliazione cessa il termine di 180 giorni per l’impugnativa giudiziale che decorre dalla impugnativa extragiudiziale e inizia a decorrere il diverso termine di 60 giorni dal rifiuto della conciliazione o dal mancato accordo.
Nel caso in cui il lavoratore abbia comunicato l’invito alla conciliazione presso l’ufficio provinciale del lavoro e ai sensi dell’articolo 410 c.p.c. e il datore di lavoro non abbia provveduto entro 20 giorni dal ricevimento dell’invito a depositare presso la commissione di conciliazione la propria memoria, decorso l’ulteriore termine di 20 giorni previsto dal settimo comma dell’articolo 410 c.p.c. deve ritenersi che il tentativo di conciliazione si sia esaurito. Conseguentemente, comincia a decorrere il termine di 60 giorni previsto dall’articolo 6, secondo comma, della legge n. 604 del 1966, la cui inosservanza determina l’inammissibilità del ricorso.
La disciplina delle spese giudiziali dettata dal vigente ordinamento processuale è improntata al principio per cui il costo del processo non può andare a danno o comunque essere sopportato dalla parte vittoriosa, altrimenti verificandosi un vulnus alla pienezza ed effettività del diritto di azione e di difesa tutelato dall’art. 24 Cost., il che presuppone che la liquidazione definitiva delle spese non possa che avvenire all’esito del giudizio, come evidenziato dalla espressa dizione dell’art. 91 c.p.c. che impone al giudice di pronunciare la statuizione sulle spese “con la sentenza che chiude il processo davanti a lui.”
La misura della condanna alle spese deve tendere quanto più possibile a garantire alla parte vittoriosa il pieno ristoro di tutti gli esborsi che ha sostenuto per far valere il proprio diritto, ivi compreso il compenso spettante al difensore che l’ordinamento processuale impone di incaricare, in virtù dell’obbligo della difesa tecnica, salvo che tali esborsi non siano manifestamente eccessivi e sproporzionati rispetto al valore della controversia.
[Tribunale Termini Imerese, sentenza del 11.6.2014]