Irragionevole durata del processo, domanda per l’equa riparazione: il deposito di atti e documenti può essere successivo al deposito del ricorso in cancelleria?

Soggiace al termine perentorio stabilito dalla L. n. 89 del 2001, art. 4, unicamente il deposito nella cancelleria della Corte d’appello adita di un ricorso avente i requisiti di cui all’art. 125 c.p.c., richiamato dall’art. 3, comma 1, stessa legge. Pertanto, il deposito degli atti e dei documenti elencati nel terzo comma del medesimo articolo può sopravvenire in qualunque momento utile, prima che il presidente della Corte o il consigliere da lui designato provvedano con decreto sulla domanda, ovvero nel termine eventualmente concesso ai sensi dell’art. 640 c.p.c., comma 1, richiamato dallo stesso art. 3, successivo comma 4.

 

Cassazione civile, sezione sesta, ordinanza del 4.11.2016, n. 22453

 …omissis…

1. Con i due motivi d’impugnazione, che il ricorrente unifica nell’esposizione, è dedotto il vizio d’insufficiente e contraddittoria motivazione, in punto di produzione dei documenti necessari, e la violazione della L. n. 89 del 2001, artt. 3 e 4, artt. 156 e 640 c.p.c., artt. 2712 e 2719 c.c., nonchè la violazione del principio del giusto processo. E’ prospettata, altresì, una questione d’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 3 legge c.d. Pinto, ove interpretato conformemente al decreto impugnato, per violazione dell’art. 3 Cost..

Deduce parte ricorrente che il decreto impugnato non ha considerato che nessuna nullità può essere dichiarata se non espressamente prevista dalla legge; e che, semmai, l’art. 3, quarto comma legge Pinto, nel richiamare l’art. 640 c.p.c., comma 1, in base al quale il giudice della fase monitoria può invitare la parte, a integrare la prova, depone implicitamente nel senso contrario all’inammissibilità della domanda non sufficientemente documentata.

2. La censura di violazione di legge è fondata, nei termini che seguono.

La L. n. 89 del 2001, art. 3, comma 3, come modificato dal D.L. n. 83 del 2012, convertito con modificazioni in L. n. 134 del 2012, dispone che unitamente al ricorso deve essere depositata copia autentica della citazione, del ricorso, delle comparse e delle memorie relative al procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, dei verbali di causa e dei provvedimenti del giudice, incluso quello che ha definito il giudizio, ove questo si sia concluso con sentenza od ordinanza irrevocabili; mentre l’art. 4 stabilisce che la domanda deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva.

Le predette due disposizioni si coordinano agevolmente tra loro senza per questo integrarsi, come invece mostra di aver opinato la Corte territoriale.

Quest’ultima ha ritenuto che la comminatoria di decadenza si riferisca al ricorso corredato da tutta la documentazione prescritta, e che, di riflesso, le produzioni di cui all’art. 3, comma 3 cit., condizionino l’attitudine del ricorso stesso a rendere concreta ed attuale la potestas iudicandi della Corte adita.

Il che equivale ad affermare che il ricorso privo di uno o più degli atti o dei documenti da allegare in copia autentica sia invalido, e non rinnovabile una volta decorso il termine di proposizione di cui all’art. 4 stessa legge.

Soluzione, quest’ultima, cui si oppongono ragioni di corretta esegesi normativa e di natura sistematica.

2.1. Premesso che l’inammissibilità non è altro che la conseguenza di una nullità (formale o extraformale) insanabile o non più sanabile ovvero di una preclusione, va osservato, sotto il primo profilo, che l’art. 3, legge Pinto non contiene alcuna espressa menzione del fatto che la produzione degli atti e dei documenti sia condizione d’ammissibilità della domanda. Nè ciò è ricavabile dall’avverbio “unitamente”, incipit dell’art. 3, comma 3, affatto inidoneo di per sè solo a traslare la perentorietà del termine dell’art. 4, dal ricorso al relativo corredo documentale. La necessità di porre in essere un dato atto entro un termine perentorio, non significa che ogni altra attività processuale, ancorchè connessa e coeva, debba compiersi sotto la medesima comminatoria. Non solo, ma il rinvio all’art. 640 c.p.c., primi due commi, contenuto nel quarto comma dell’art. 3, milita a favore della soluzione esattamente opposta.

La tesi contraria sostenuta dalla Corte messinese appare viziata da una sostanziale petizione di principio (nel senso che revoca in ipotesi la tesi che vorrebbe dimostrare), poichè di detta norma fornisce un’interpretazione deontica e servente rispetto a quella oggetto di argomentazione.

Per contro, nulla predica che il potere del giudice di invitare il ricorrente a integrare i documenti prodotti si riferisca solo a quant’altro, in ipotesi, appaia utile a valutare la dedotta violazione del termine di durata ragionevole. Per effetto del richiamo anche all’art. 640 c.p.c., comma 2, l’inottemperanza all’invito del giudice importa il rigetto della domanda con decreto motivato. Conseguenza, quest’ultima, incompatibile con il testo del comma 3, del medesimo articolo, che chiaramente configura come necessari e sufficienti ai fini del procedere gli atti e i documenti di cui prescrive il deposito (diversamente non se ne comprenderebbe l’elencazione). Non senza considerare che, così intesa, la seconda parte dell’art. 3, comma 4, esprimerebbe un potere di ricerca officiosa della prova inconciliabile con la struttura monitoria del procedimento, nel quale la domanda più che essere “decisa” è integrata dal giudice ai fini della successiva provocatio ad opponendum.

Tanto meno avrebbe rilievo, infine, considerare che, ai sensi della prima parte dell’art. 3, comma 4, legge cit., il decreto motivato con il quale il presidente della corte d’appello, o il magistrato della stessa Corte a tal fine designato, provvede sulla domanda di equa riparazione, deve essere emesso entro trenta giorni dal deposito del ricorso. Si tratta di un termine ordinatorio perfettamente compatibile con quello di cui all’art. 640 c.p.c., comma 1, la cui accidentale consumazione non è argomento logico per risolvere, in un senso piuttosto che in un altro, un quesito interpretative 11 carattere generale.

3.2. Sotto il profilo sistematico deve rilevarsi che i requisiti di forma-contenuto che governano la validità degli atti processuali e la produzione dei relativi effetti in maniera non potenzialmente caduca, sono per definizione interni all’atto stesso, come si ricava dall’art. 156 c.p.c.. Con la conseguenza che essi non possono farsi dipendere da un’attività di produzione, la quale non soggiace a requisiti formali diversi dalla certificazione del suo compimento, ai sensi dell’art. 87 disp. att. c.p.c..

Se ne trae conferma dal fatto che l’art. 125 c.p.c., non casualmente richiamato, del resto, dalla L. n. 89 del 2001, art. 3, comma 1, nel disciplinare il contenuto (e la sottoscrizione) degli atti di parte non elenca tra i requisiti di validità le produzioni documentali, che per loro stessa natura riguardano la prova del diritto azionato, non la sua corretta ed efficiente postulazione mediante una domanda giudiziale dotata dei requisiti di ammissibilità.

Nè, infine, varrebbe ipotizzare il deposito degli atti e dei documenti di cui all’art. 3 cit., comma 3, come attività perfezionativa della costituzione in giudizio del ricorrente. Funzionale a delimitare in senso soggettivo l’ambito dei partecipanti alla causa, la costituzione in giudizio, quale dichiarazione formale di presenza nel processo al fine di acquisirne oneri e poteri, non è configurabile nell’ambito di un procedimento monitorio. Essendo quest’ultimo caratterizzato da un rapporto necessariamente (e non solo eventualmente) biunivoco, è insensato pensare alla posizione del ricorrente nei termini relazionali propri della costituzione.

2.3. Va da sè, per quanto fin qui considerato, che respinta la domanda con decreto L. n. 89 del 2001, ex art. 3, comma 6, per la sua insufficiente documentazione, il ricorrente può produrre gli atti e i documenti mancanti nella successiva fase d’opposizione, che per la sua natura pienamente devolutiva non subordina l’esercizio di tale facoltà ad alcuna previa concessione, ora per allora, di quel medesimo termine non concesso ai sensi dell’art. 640 c.p.c., comma 1.

A tale ultimo riguardo va osservato che l’osservazione finale contenuta nel decreto impugnato, ove si rileva l’assenza anche in fase d’opposizione dei documenti relativi al giudizio presupposto, non costituisce ratio decidendi, poichè esprime un giudizio di merito (sulla mancata prova dei fatti costitutivi della domanda) precluso dalla precedente declaratoria d’inammissibilità (sui rapporti tra decisione in rito e motivazione in merito, ai fini dell’assolvimento dell’onere d’impugnazione, cfr. Cass. S.U. n. 3840/07).

3. Ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1, va dunque formulato il seguente principio di diritto: “soggiace al termine perentorio stabilito dalla L. n. 89 del 2001, art. 4, unicamente il deposito nella cancelleria della Corte d’appello adita di un ricorso avente i requisiti di cui all’art. 125 c.p.c., richiamato dall’art. 3, comma 1, stessa legge. Pertanto, il deposito degli atti e dei documenti elencati nel terzo comma del medesimo articolo può sopravvenire in qualunque momento utile, prima che il presidente della Corte o il consigliere da lui designato provvedano con decreto sulla domanda, ovvero nel termine eventualmente concesso ai sensi dell’art. 640 c.p.c., comma 1, richiamato dallo stesso art. 3, successivo comma 4”.

4. L’accoglimento del secondo motivo nei termini anzi detti assorbe l’esame d’ogni altra censura e della prospettata questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 3, legge Pinto.

5. Il decreto impugnato va dunque cassato con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Messina, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

pqm

La Corte accoglie il ricorso e cassa il decreto impugnato con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Messina, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.