Intervento nel processo: qual è la perimetrazione applicativa delle preclusioni di cui all’art. 268 c.p.c.?

L’art. 268 c.p.c. riguarda, nella sua portata generale, anche l’intervento volontario autonomo e, in tale fattispecie processuale, la formulazione da parte del terzo di domande autonome rispetto a quelle già formulate dalle parti originariamente costituitesi in giudizio deve ritenersi coessenziale all’intervento stesso. Sicchè estendere al terzo interveniente gli effetti della preclusione sulle domande, eventualmente già verificatasi per le altre parti, equivarrebbe in pratica a negare il suo diritto di intervento autonomo entro il termine ultimo della precisazione delle conclusioni definitive, così come invece allo stesso espressamene consentito dalla legge. Su tale presupposto, il divieto di compiere atti che al momento dell’intervento non siano più permessi alle altre parti (salva la peculiare ipotesi della comparizione volontaria per la necessaria integrazione del contraddittorio) deve riferirsi unicamente all’attività istruttoria; con riguardo alla quale l’interveniente deve accettare il processo nello stato in cui si trova e, dunque, eventualmente anche nello stato risultante in esito alle preclusioni probatorie concernenti le altre parti. Una diversa interpretazione dell’art. 268 c.p.c. non potrebbe trovare fondamento nel principio costituzionale di ragionevole durata del processo. In definitiva, dunque, la preclusione di cui all’art. 268 c.p.c. opera esclusivamente sul piano istruttorio, non anche su quello assertivo; con conseguente ammissibilità (salva l’osservanza del termine ultimo dato dalla precisazione delle conclusioni) della formulazione da parte del terzo interveniente di domande nuove ed autonome.

 

Cassazione civile, sezione terza, sentenza del 2.3.2018, n. 4934