Intervento in appello: quando è consentito?

L’intervento in appello è consentito esclusivamente a chi, non avendo già partecipato al primo grado, sarebbe legittimato a proporre l’opposizione di terzo a norma dell’art. 404 del c.p.c., sia ordinaria che revocatoria (sulla scorta della dimostrazione del rischio di un pregiudizio eventuale – non necessariamente effettivo – che possa derivare dall’emananda sentenza), giacché l’art. 344 c.p.c., nell’apprestare uno strumento di tutela anticipata, consente ai terzi di fare valere le proprie ragioni ancor prima che sia emessa la sentenza che potrebbe pregiudicarle, sempre che si tratti d’intervento principale ossia nel caso in cui il terzo «rivendichi, nei confronti di entrambe le parti, la titolarità di un diritto autonomo la cui tutela sia incompatibile con la situazione accertata o costituita dalla sentenza di primo grado, e non anche quando l’intervento stesso sia qualificabile come adesivo, perché volto a sostenere l’impugnazione di una delle parti per porsi al riparo da un pregiudizio mediato dipendente da un rapporto» che leghi, per l’appunto, il diritto dell’interventore a quello di tale parte, oppure come coatto, sia iussu iudicis che a istanza di parte. Dall’altra, chi, invece, avendo spiegato, in primo grado, intervento volontario autonomo, abbia assunto formalmente la qualità di parte primaria nel processo, è legittimato a (e, quindi, deve – se intende partecipare anche al secondo grado, impedendo il passaggio in giudicato della sentenza nei propri confronti –) proporre appello contro la decisione pronunziata, non solo quando le sue istanze siano state respinte nel merito, ma anche quando sia stata negata l’ammissibilità dell’intervento medesimo ovvero sia stata omessa ogni pronuncia sulla domanda formulata con quest’ultimo.

Tribunale di Roma, sentenza del 2.4.2020, n. 5642