Interpretazione per analogia legis solo in caso di mancanza di norma
L’art. 12 preleggi, comma 2, prevede infatti che, quando una controversia non può essere decisa in base ad una specifica disposizione – da interpretarsi, ai sensi del comma 1, secondo i canoni ermeneutici letterale, sistematico, teleologico e storico – il giudice deve ricorrere innanzitutto all’analogia legis, al fine di estendere al caso non previsto la norma positiva dettata per casi simili o materie analoghe, e quindi, ove permanga il dubbio interpretativo, all’analogia iuris, facendo ricorso ai principi generali dell’ordinamento giuridico.
Occorre però che la lacuna normativa sia correttamente individuata dal giudice, per evitare che la scelta arbitraria di riempire un preteso vuoto normativo ridondi nella compromissione delle prerogative riservate al potere legislativo e del principio di divisione dei poteri dello Stato. Non basta, dunque, che una disposizione normativa non preveda espressamente una certa disciplina per colmare la pretesa lacuna normativa facendo ricorso all’analogia ai sensi dell’art. 12 preleggi.
Per attivare il meccanismo di “auto-integrazione” dell’ordinamento, fondamento dell’analogia, occorre invece dapprima riscontrare scrupolosamente l’effettiva mancanza di una norma di legge atta a regolare direttamente la fattispecie concreta, e quindi verificare se siano rinvenibili nell’ordinamento una o più norme positive (c.d. analogia legis) ovvero uno o più principî giuridici (c.d. analogia iuris), nel cui perimetro qualificatorio quella fattispecie possa essere ricondotta, sulla base dell’accertamento di un rapporto di somiglianza tra alcuni elementi (giuridici o di fatto) della vicenda regolata ed alcuni elementi di quella non regolata.
Cassazione civile, sezione prima, sentenza del 6.6.2023, n. 15790