Conciliazioni ex artt. 185, 410 e 411 c.p.c., diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge o dei contratti o accordi collettivi: quale impugnabilità?

La previsione dell’art. 2113 c.c., che prevede la impugnabilità delle rinunzie e transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge o dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di lavoro di cui all’art. 409 c.p.c., non trova applicazione per le conciliazioni avvenute ai sensi degli artt. 185, 410 e 411 c.p.c.; in particolare, posto che il terzo comma dello stesso art. 2113 c.c. richiama tutto l’art. 411 c.p.c., ai sensi del terzo comma di quest’ultimo articolo anche le rinunzie e transazioni concluse in sede sindacale sono sottratte a detta impugnazione, indipendentemente dal rispetto o meno delle formalità previste dall’art. 411 c.p.c. (deposito presso l’ufficio del lavoro, deposito presso la cancelleria della pretura) che costituiscono adempimenti successivi estranei rispetto all’essenza negoziale della conciliazione, diretti rispettivamente a dare autenticità all’atto e a conferire efficacia esecutiva al verbale.

 

Tribunale di Firenze, sezione lavoro, sentenza del 12.7.2016

…omissis…

a) Mansioni superiori e differenze retributive.

La ricorrente è stata assunta il 1 marzo 2007 con contratto a tempo determinato part time come formatore V livello del CCNL formazione professionale, in data 5 luglio 2007 trasformato in contratto a tempo pieno e indeterminato, con inquadramento al VI livello del medesimo contratto (doc. 2 e 3 ric.). In data 22 febbraio 2010 è stato sottoscritto dalle parti dinanzi alla DPL di Firenze un verbale di conciliazione, nel quale la ricorrente “… dichiara di rinunciare alla applicazione del CCNL citato in premessa… (CCNL formazione professionale)…a decorrere dal 31 agosto 2009 e, di conseguenza, rinuncia ad ogni istituto contrattuale – sia economico che normativo – ivi previsto, nessuno escluso… la lavoratrice a decorrere dal 1 settembre 2009 accetta l’applicazione del CCNL in vigore per il Terziario con inquadramento al III livello9 contrattuale, con la qualifica di impiegata di concetto e con il mantenimento delle mansioni di formatrice..” (doc. 6 conv.).

Ciò premesso, l’inquadramento di cui la ricorrente chiede l’accertamento è stato riconosciuto contrattualmente. Infatti la ricorrente è stata inquadrata al V livello dalla data dell’assunzione fino al 5 luglio 2007 e al VI livello da quella data e fino al 31 agosto 2009, data nella quale ha ricevuto attuazione la conciliazione sottoscritta dinanzi alla DPL. Pertanto non si comprende di quali mansioni superiori la ricorrente voglia il riconoscimento.

Quanto alle mansioni superiori asseritamente svolte a decorrere dal 1 settembre 2009, essa afferma di aver svolto attività di responsabile di funzione amministrativa e orientatore, membro di commissione di esami di qualifica, coordinatore, docente, co- docente, tutoraggio, supervisione in numerosi progetti. Sulla base di dette mansioni afferma che avrebbe dovuto essere inquadrata al I anziché al III livello del CCNL commercio, in quanto a quel livello appartengono lavoratori con funzioni ad alto contenuto professionale anche con responsabilità di direzione esecutiva, che sovraintendono alle unità produttive o ad una funzione organizzativa con carattere di iniziativa e di autonomia operativa nell’ambito delle responsabilità ad essi delegate…”.

Il riconoscimento dell’inquadramento superiore per tali mansioni è precluso dalla sottoscrizione del verbale di conciliazione con il quale la ricorrente ha accettato di essere inquadrata al III livello. Non è accoglibile la tesi di parte ricorrente secondo cui il I livello del CCNL sarebbe quello economicamente più vicino a quello del CCNL precedentemente applicato, poiché non sarebbe possibile una riduzione di retribuzione in corso di contratto e solo per il cambio di contrattazione collettiva applicata (inizio parte in diritto del ricorso), dal momento che “… La previsione dell’art. 2113 c.c., che prevede la impugnabilità delle rinunzie e transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge o dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di lavoro di cui all’art. 409 c.p.c., non trova applicazione per le conciliazioni avvenute ai sensi degli artt. 185, 410 e 411 c.p.c.; in particolare, posto che il terzo comma dello stesso art. 2113 c.c. richiama tutto l’art. 411 c.p.c., ai sensi del terzo comma di quest’ultimo articolo anche le rinunzie e transazioni concluse in sede sindacale sono sottratte a detta impugnazione, indipendentemente dal rispetto o meno delle formalità previste dall’art. 411 c.p.c. (deposito presso l’ufficio del lavoro, deposito presso la cancelleria della pretura) che costituiscono adempimenti successivi estranei rispetto all’essenza negoziale della conciliazione, diretti rispettivamente a dare autenticità all’atto e a conferire efficacia esecutiva al verbale”. (Cass. n. 9241/1991; n. 2146 /2011; n. 9120/2015).

Tale considerazione è assorbente rispetto ad ogni altra.

Va poi anche considerato che la ricorrente ha espressamente riconosciuto di aver sempre svolto le stesse mansioni, quelle per le quali le è stato contrattualmente riconosciuto il livello V e poi il VI rivendicati.

b) Differenze retributive.

Mentre deve essere logicamente respinta la domanda relativa a differenze retributive connesse con la richiesta di riconoscimento del I livello, la domanda formulata in subordine è affetta da nullità per carenza di allegazione, in fatto e in diritto, dei motivi per i quali le differenze sono rivendicate. Tale difetto rende infatti impossibile l’individuazione, anche attraverso l’esame complessivo dell’atto, dell’esatta pretesa della ricorrente, impedendo alla parte convenuta di approntare una compiuta difesa. Sul punto il principio affermato più volte dalla Corte di Cassazione con riferimento alla nullità del ricorso, appare applicabile per analogia e logica ispiratrice anche alle singole domande formulate dalle parti.

c) Illegittimità del licenziamento.

La ricorrente chiede la dichiarazione di illegittimità del licenziamento intimatole in tesi perché discriminatorio, in ipotesi per mancanza del giustificato motivo oggettivo.

La ragione addotta in tesi non è provata.

Nel licenziamento discriminatorio grava infatti sul lavoratore licenziato l’onere di dimostrare i reali motivi del licenziamento a fronte di quanto effettivamente dichiarato, motivi che devono aver determinato in via esclusiva la volontà del datore di lavoro di licenziare, anche nel caso in cui vi concorrano motivazioni diverse quali la giusta causa o il giustificato motivo. La ricorrente non ha adempiuto all’onere su di lei gravante. Non ha infatti dimostrato la violazione dei criteri di cui all’art. 5 L. n. 223 del 1991, poiché non ha neppure dedotto che vi fossero altri lavoratori con minori carichi di famiglia o minore anzianità, non ha dimostrato la continuazione dell’attività nella sede di Omissis. (al contrario il doc. 12 di parte convenuta mostra che la sede di Omissis. è stata lasciata in data 20 luglio 2012).

Al contrario parte convenuta ha potuto dimostrare una complessiva perdita di esercizio nel 2012 che risulta dal conto economico (doc. 14 conv.), mentre il teste B., all’epoca direttore della società convenuta, sottolinea nella sua testimonianza come la perdita di esercizio non risulti nel 2012 particolarmente grave (€ 5.452,00) soltanto perché la sede di Omissis ha con i suoi introiti sostenuto anche l’unità locale di Firenze. Inoltre sottolinea come si siano progressivamente ridotti i fondi  per i progetti nel sociale, di cui si occupava la sede di Oxxxxxx

Va poi considerato che, anche ammesso che la perdita di esercizio possa ritenersi lieve, è tuttavia sufficiente per giustificare la scelta imprenditoriale, nel cui merito il Giudice non può entrare, di chiudere una unità locale autonoma, con conseguente licenziamento del personale.

Infine la ricorrente lamenta la violazione dell’obbligo di repe chage. Sul punto, ” In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro ha l’onere di dedurre e provare in giudizio che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro utile, alla quale avrebbe potuto essere assegnato il lavoratore licenziato per l’espletamento di mansioni equivalenti a quelle da ultimo svolte o, in mancanza, anche di mansioni di livello professionale inferiore, provando altresì, in quest’ultima ipotesi, di avere offerto al lavoratore tale opportunità di prosecuzione del rapporto in compiti professionalmente inferiori, esistenti e comunque utili per l’impresa e che questa offerta non è stata accettata, prima del licenziamento”. (Cass. n. 7515/2012).

La convenuta avrebbe dovuto quindi dimostrare di aver almeno offerto una alternativa di lavoro alla ricorrente nella sede di OxxxxxxA. questo proposito non è fondata la tesi convenuta secondo cui la ricorrente avrebbe dovuto indicare quali posizioni erano disponibili: è la stessa parte convenuta che dichiara di non aver subito alcuna crisi nella sede di prato. A ciò deve aggiungersi che non appare rilevante il fatto che la professionalità della ricorrente si fosse realizzata fino a qual momento prevalentemente in progetti di carattere sociale mentre la sede di Omissis si rivolgeva al settore privato che richiede un orientamento formativo diverso. Il titolo di studio e l’esperienza della ricorrente in mansioni di formatore ne indicavano quanto meno la idoneità per un tentativo di ricollocazione.

Conseguentemente il licenziamento deve essere dichiarato illegittimo e la convenuta condannata a riassumere la ricorrente e a risarcirle il danno.

Quanto alla misura del risarcimento, in considerazione degli anni di anzianità della lavoratrice presso l’azienda si ritiene di determinarla in sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori.

Le spese di lite possono essere compensate in considerazione della reciproca soccombenza.

pqm

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza respinta o disattesa: dichiara illegittimo il licenziamento irrogato alla ricorrente dalla società convenuta e condanna quest’ultima a riassumere la signora oddds e a pagarle, a titolo risarcitorio, sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre interessi legali e la rivalutazione monetaria Istat per la parte eventualmente eccedente questi ultimi, dalla data del licenziamento al saldo effettivo. Respinge per il resto il ricorso. Compensa per intero le spese fra le parti.