Avvocato iscritto alla Cassa forense titolare di pensione INPS, Riforma del sistema previdenziale forense, legittimità costituzionale

Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 10 e 22, secondo comma, della legge 20 settembre 1980, n. 576 (Riforma del sistema previdenziale forense), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 38, secondo comma:

–        art. 10 cit.: il Giudice rimettente, in particolare, aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 cit.,  in riferimento all’art. 3 della Costituzione, sotto i profili del principio di eguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità, in quanto l’avvocato iscritto alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza degli avvocati ed i procuratori, che sia anche titolare di pensione di vecchiaia nell’assicurazione generale obbligatoria della gestione INPS, è tenuto al versamento di un contributo percentuale sul reddito annuale «secondo le stesse regole che si applicano nel caso in cui ad iscriversi sia un giovane avvocato […]», con disparità di trattamento, stante l’applicazione della stessa disciplina a situazioni tra loro profondamente diverse. Infatti, l’avvocato già pensionato in altra gestione, iscritto alla Cassa in età avanzata, ben difficilmente maturerà, a fronte del versamento dei contributi richiesti dalla Cassa, i presupposti per percepire la pensione di vecchiaia o quella di anzianità e comunque non potrà conseguire il trattamento pensionistico di inabilità, né quello di invalidità, né tantomeno far maturare pensioni ai superstiti. Non è possibile – secondo il rimettente − che, pur essendo il sistema previdenziale forense ispirato al principio solidaristico per cui tra contributi e prestazioni erogate dalla Cassa non sussiste un vincolo di corrispettività, l’assicurato partecipi al suo finanziamento in misura del tutto sproporzionata rispetto a quanto effettivamente gli sarà possibile percepire come trattamento pensionistico. Inoltre – prosegue il rimettente − mentre l’avvocato pensionato nella gestione INPS, iscritto alla Cassa, è tenuto a contribuire al finanziamento di un trattamento previdenziale che non potrà verosimilmente percepire, non essendo nelle condizioni, in ragione della sua età, di raggiungere i requisiti per il conseguimento della pensione di vecchiaia, invece, l’avvocato pensionato della Cassa che rimane iscritto all’albo è tenuto a corrispondere la sola contribuzione solidaristica nella misura ridotta del 3 per cento del reddito annuale e matura, nel tempo, il diritto a due supplementi di pensione. Vi sarebbe quindi una regolamentazione diversa di situazioni analoghe con violazione del principio di eguaglianza. Secondo il tribunale rimettente sarebbe altresì violato sia l’art. 38 Cost., in quanto l’avvocato pensionato nella gestione INPS, iscritto alla Cassa, verrebbe a finanziare una prestazione della quale egli non potrà godere, potendo solo accedere ad un trattamento previdenziale – c.d. “pensione contributiva” – notevolmente inferiore ai contributi effettivamente versati; sia l’art. 53 Cost., per essere egli «tenuto a finanziare la spesa previdenziale in misura sproporzionata e maggiore rispetto a quella sostenuta dagli altri suoi colleghi che percepiscono le prestazioni pensionistiche dalla Cassa»; detta ultima censura è stata dichiarata inammissibile dalla Consulta;

–        art. 22 cit.: lo stesso tribunale ha sollevato altresì questione incidentale di legittimità costituzionale dell’art. 22, secondo comma, della medesima legge n. 576 del 1980, in riferimento agli stessi parametri, in quanto l’avvocato pensionato nella gestione INPS, che non abbia nascosto il proprio reddito ed abbia effettuato le ordinarie comunicazioni reddituali alla Cassa, senza però richiedere ad essa l’iscrizione, viene sanzionato in modo più grave di colui il quale, dopo avere richiesto l’iscrizione, non invii annualmente la comunicazione reddituale o la effettui in modo infedele (art. 17 della legge n. 576 del 1980) ovvero ritardi o non effettui il pagamento dei contributi (art. 18 della medesima legge). La norma censurata contiene – secondo il rimettente − una sanzione del tutto sproporzionata rispetto all’effettiva lesività del comportamento concretamente tenuto dall’avvocato.

 

Corte costituzionale, sentenza 30 marzo 2018, n. 67