Più probabile che non nel caso di più di due alternative causali: prima si eliminano quelle meno probabili, poi si confrontano le restanti.

Il nesso di causa è provato quando la tesi a favore (del fatto che un evento sia causa di un altro) è più probabile di quella contraria (che quell’evento non sia causa dell’altro): il che si esprime con la formula del “più probabile che non”.

Nel caso di concorso di cause, che è ciò che si tratta di accertare qui, ossia nel caso in cui si tratta di verificare se la cosa ha contribuito causalmente all’evento insieme ad altre concause, quel principio di diritto è specificato nel modo seguente: “qualora l’evento dannoso sia ipoteticamente riconducibile a una pluralità di cause, si devono applicare i criteri della “probabilità prevalente” e del “più probabile che non”; pertanto, il giudice di merito è tenuto, dapprima, a eliminare, dal novero delle ipotesi valutabili, quelle meno probabili (senza che rilevi il numero delle possibili ipotesi alternative concretamente identificabili, attesa l’impredicabilità di un’aritmetica dei valori probatori), poi ad analizzare le rimanenti ipotesi ritenute più probabili e, infine, a scegliere tra esse quella che abbia ricevuto, secondo un ragionamento di tipo inferenziale, il maggior grado di conferma dagli elementi di fatto aventi la consistenza di indizi, assumendo così la veste di probabilità prevalente”.

Naturalmente la probabilità riguarda il grado dell’inferenza, ossia: dai determinati indizi è probabile (più probabile che non) che la causa sia quella indicata dal danneggiato, ma non riguarda la rilevanza degli stessi indizi, che invece devono essere non già probabili, ma gravi, precisi e concordanti.

Con la conseguenza che il giudice di merito deve porre a base della decisione fatti che siano gravi, precisi e concordanti, e non meramente ipotetici o supposti come probabili, e da quei fatti deve indurre ipotesi ricostruttive del nesso di causa escludendo quelle meno probabili, e scegliendo, tra quelle rimaste, l’ipotesi che spiega il fatto con maggiore probabilità, sulla base degli indizi raccolti.

Non serve dunque nè la certezza, nè una elevata probabilità, come assunto dalla Corte di merito, bensì una valutazione delle ipotesi alternative e la scelta di quella più probabile, anche se di poco, rispetto alle altre, che non necessariamente si ponga come di elevata probabilità.

Ciò si spiega per il fatto che le probabilità numeriche di un fatto (che la cosa abbia concorso al danno) non necessariamente ammontano al 100%, ossia: data la tesi X e quella contraria Y, non necessariamente la loro somma porta al 100% (nel senso che la prima è data al 60% e l’altra al 40%, ad esempio).

Ciò accade perchè c’è sempre spazio per altre spiegazioni, molto meno probabili, che sono date ad una percentuale minore. Cosi che, scartate queste ultime, può accadere che le rimanenti, ad esempio quella sostenuta dall’attore e quella sostenuta dal convenuto, abbiano l’una il 30% e l’altra il 20%: la regola del più probabile che non, porta ad affermare come fondata la prima delle due, anche se non caratterizzata da una elevata probabilità, come ha preteso la corte di merito, quanto piuttosto di una probabilità maggiore dell’altra ipotesi.

Cassazione civile, sezione terza, sentenza del 26.04.2023, n. 10978

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