L’attività interpretativa del giudice è limitata dal significante testuale della disposizione: questo limite fissa la distinzione dei piani tra legislatore e giudice. Altro ipse dixit delle Sezioni Unite (IL ≥ IR).
L’attività interpretativa è segnata dal limite di tolleranza ed elasticità del significante testuale della disposizione che ha posto, previamente, il legislatore, dai cui plurimi significati possibili (e non oltre) muove necessariamente la dinamica dell’inveramento della norma nella concretezza dell’ordinamento, nell’ambito del quale la norma di volta in volta adegua il suo contenuto ad opera della giurisprudenza. Proprio detto limite, in definitiva, segna la distinzione dei piani sui quali operano, rispettivamente, il legislatore e il giudice.
Il piano sul quale opera il giudice è quello dell’interpretazione mediante i plurimi canoni (dell’interpretazione letterale, teleologico e sistematico, storico-evolutiva) elaborati dalla scienza giuridica, dai quali il giudice tracima quando attribuisce alla disposizione di legge un significato del tutto estraneo alle plausibilità di senso desumibili dal significante testuale, con l’effetto di debordare dal limite di tolleranza ed elasticità della disposizione, nel qual caso la decisione finisce per «porsi quale “regola del caso” valevole anche per il futuro, assumendo in tal modo le sembianze di una (vera) disposizione di legge di fonte giurisdizionale. Evenienza quest’ultima suscettibile di manifestarsi, in particolare, quando la decisione, provenendo da un organo giurisdizionale di ultimo grado, sia suscettibile di futura applicazione in un numero indefinito di casi.
Cassazione civile, Sezioni Unite, ordinanza del 15.2.2023, n. 4789