Avvocato: dichiarazioni in giudizio e dovere di verità

Laddove l’avvocato si trovi nella condizione di non poter seguire allo stesso tempo verità e mandato, leggi e cliente, la sua scelta deve privilegiare il più alto e pregnante dovere radicato sulla dignità professionale, ossia l’ossequio alla verità ed alle leggi spinto fino all’epilogo della rinunzia al mandato in virtù di un tale giusto motivo, astenendosi dal porre in essere attività che siano in contrasto con il prevalente dovere di rispetto della legge e della verità ex art. 50 cdf (già art. 14 codice previgente), che ispira la funzione difensiva in coerenza con il dovere di lealtà espressamente previsto dall’art. 3 L. n. 247/2012 con riferimento alla professione forense in generale, nonché dall’art. 88 cpc con specifico riguardo al processo.

[massima ufficiale]

Le dichiarazioni in giudizio relative all’esistenza di fatti o inesistenza di fatti obiettivi, che siano presupposto specifico per un provvedimento del magistrato e di cui l’avvocato abbia diretta conoscenza, devono essere vere e comunque tali da non indurre il giudice in errore (art. 50 cdf). Conseguentemente, commette illecito disciplinare l’avvocato che agisca per il risarcimento del preteso danno non patrimoniale subìto dal proprio cliente asseritamente assolto in sede penale ma in realtà prosciolto per motivi processuali (nella specie, per mancanza di querela).

[massima ufficiale]

Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Pardi, rel. Di Campli), sentenza n. 61 del 31 marzo 2021 (pubbl. 16.8.2021)