La giurisprudenza ha funzione dichiarativa e non creativa: prima l’interpretazione letterale (IL) e solo in caso di lacuna (IL=0) si utilizza l’interpretazione per analogia; altrimenti sarebbe “arbitrio giurisdizionale”.
Ove una norma, o un sistema di norme, si prestino a diverse interpretazioni, tutte plausibili, dovere primario dell’interprete, e specie del giudice, è di perseguire l’interpretazione più corretta e non una qualsiasi di quelle che il testo consente; certo essendo, altresì, che il giudice non crea il diritto, ma opera secondo i criteri ermeneutici noti ed entro i limiti del diritto positivo.
La funzione assolta dalla giurisprudenza è di natura dichiarativa, giacchè riferita ad una preesistente disposizione di legge, della quale è volta a riconoscere l’esistenza e l’effettiva portata, con esclusione formale di un’efficacia direttamente creativa.
Sicchè l’attività interpretativa giudiziale è segnata, anzitutto, dal limite di tolleranza ed elasticità dell’enunciato, ossia del significante testuale della disposizione che ha posto, previamente, il legislatore e dai cui plurimi significati possibili (e non oltre) muove necessariamente la dinamica dell’inveramento della norma nella concretezza dell’ordinamento ad opera della giurisprudenza stessa.
Secondo l’art. 12, comma 2, delle citate disposizioni preliminari, quando una controversia non può essere decisa con una specifica disposizione – da interpretarsi, ai sensi dell’art. 12, comma 1, secondo i canoni dell’interpretazione letterale, sistematica, teleologica e storica – il giudice ricorre all’analogia legis, ovverossia estende al caso non previsto la norma positiva dettata per casi simili o materie analoghe. E se, ciò nonostante, permane il dubbio interpretativo, troverà applicazione l’analogia iuris, ossia l’applicazione dei principi generali dell’ordinamento giuridico. In tal modo, il ricorso all’analogia si risolve in un meccanismo integrativo dell’ordinamento che permette al giudice di decidere comunque, anche in presenza di una lacuna normativa.
L’interpretazione, o applicazione, analogica, o per analogia, consiste dunque nel procedimento mediante il quale chi interpreta ed applica il diritto può sopperire alle eventuali deficienze di previsione legislativa (c.d. lacuna dell’ordinamento giuridico) facendo ricorso alla disciplina normativa prevista per un caso “simile” ovvero per “materie analoghe”: ciò, in quanto il giudice deve decidere ogni caso che venga sottoposto al suo esame (“obbligo di non denegare giustizia”) e deve assumere la relativa decisione applicando una norma dell’ordinamento positivo (“obbligo di fedeltà del giudice alla legge”: art. 101 Cost., comma 2).
Segnatamente, per poter ricorrere al procedimento per analogia, è necessario che: a) manchi una norma di legge atta a regolare direttamente un caso su cui il giudice sia chiamato a decidere; b) sia possibile ritrovare una o più norme positive (c.d. analogia legis) o uno o più principi giuridici (c.d. analogia iuris) il cui valore qualificatorio sia tale che le rispettive conseguenze normative possano essere applicate alla fattispecie originariamente carente di una specifica regolamentazione, sulla base dell’accertamento di un rapporto di somiglianza tra alcuni elementi (giuridid o di fatto) della fattispecie regolata ed alcuni elementi di quella non regolata: costituendo il fondamento dell’analogia la ricerca del “quid comune”, mediante il quale l’ordinamento procede alla propria “autointegrazione”. Presupposti per l’utilizzo dell’analogia, quale mezzo di integrazione dell’ordinamento giuridico sono, dunque, la presenza di una lacuna dell’ordinamento e che le norme da applicare disciplinino un caso simile.
L’analogia legis postula, anzitutto, che sia correttamente individuata una “lacuna”, tanto che al giudice sia impossibile decidere, secondo l’incipit del precetto (“se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione…”); difatti, l’art. 12 preleggi, comma 2, si spiega storicamente soltanto nel senso di evitare, in ragione del principio di completezza dell’ordinamento giuridico, che il giudice possa pronunciare un non liquet, a causa la mancanza di norme che disciplinino la fattispecie.
Se l’applicazione analogica presuppone la carenza di una norma nella indispensabile disciplina di una materia o di un caso (cfr. art. 14 preleggi), ciò vuol dire che, in caso contrario, la scelta di riempire un preteso vuoto normativo sarebbe rimessa all’esclusivo arbitrio giurisdizionale, con conseguente compromissione delle prerogative riservate al potere legislativo e del principio di divisione dei poteri dello Stato.
Onde non semplicemente perchè una disposizione normativa non preveda una certa disciplina, in altre invece contemplata, costituisce ex se una lacuna normativa da colmare facendo ricorso all’analogia, ai sensi dell’art. 12 preleggi.
Il canone della c.d. interpretazione analogica non costituisce la via per creare come si vuole norme inesistenti nel diritto positivo, essendo, invece, solo il modo, dall’ordinamento stesso prefigurato, di colmare le lacune dello stesso. Ciò tanto più quando, come nel caso in esame, si tratti di estendere l’applicazione di una disposizione specifica oltre l’ambito delineato dal legislatore ed in presenza di diversi presupposti integrativi della fattispecie.
Cassazione civile, sezione prima, ordinanza del 3.12.2021, n. 38333