L’interpretazione da preferire è quella il più possibile aderente al senso letterale delle parole (IL ≥ IR)

E’ bene rammentare che l’art. 12 preleggi, nel dettare i criteri legislativi di interpretazione, stabilisce che, nell’applicare la legge, non si può ad essa attribuire altro senso se non quello fatto palese dal “significato proprio delle parole secondo la connessione di esse” e dalla “intenzione del legislatore”. L’interprete, in forza dei suddetti criteri, deve acquistare la conoscenza della determinazione legislativa, tenendo presente come, nell’espletamento della attività ermeneutica, occorra attenersi innanzitutto e principalmente al lato letterale[1].

Il primato dell’interpretazione letterale è, infatti, costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui all’intenzione del legislatore, in base ad un’interpretazione logica, può darsi rilievo nell’ipotesi che tale significato non sia già tanto chiaro ed univoco da rifiutare una diversa e contraria interpretazione.

Alla stregua del ricordato insegnamento, l’interpretazione da seguire deve essere, dunque, quella che risulti il più possibile aderente al senso letterale delle parole, nella loro formulazione tecnico giuridica.

Cassazione civile, sezione  lavoro, sentenza del 14.10.2020, n. 22212