Rito del lavoro, rifiuto del datore di intraprendere la procedura conciliativa, conseguenze sui termini decadenziali

In caso di richiesta del tentativo di conciliazione alle commissioni di conciliazione istituite presso la Direzione provinciale del lavoro, opera l’art. 410 c.p.c., comma 5 e ss., in base al quale copia della richiesta del tentativo di conciliazione, sottoscritta dal lavoratore, deve essere consegnata o spedita con raccomandata con ricevuta di ritorno, a cura della stessa parte istante, alla controparte. Se il datore di lavoro intende accettare la procedura di conciliazione, deposita presso la commissione, entro venti giorni dal ricevimento della copia della richiesta, una memoria contenente le difese e le eccezioni in fatto e in diritto, nonchè le eventuali domande in via riconvenzionale. Ove ciò non avvenga, la richiesta si intende rifiutata dal datore di lavoro e ciascuna delle parti è libera di adire l’autorità giudiziaria; in caso, invece, di accettazione della procedura, la commissione fissa la comparizione delle parti per il tentativo di conciliazione, da tenersi entro i successivi trenta giorni. Può accadere che la procedura richiesta sia accettata dalla controparte ed effettivamente espletata ma si concluda con un esito negativo; nella diversa ipotesi, ricorre invece specificamente la fattispecie regolata dall’ultima parte della L. n. 604 del 1966, art. 6, comma 2: l’esito negativo del componimento stragiudiziale è determinato dall’immediato rifiuto della controparte di intraprendere la procedura conciliativa; in tale caso (cui, per espressa previsione legale, va equiparato quello del mancato accordo all’espletamento della procedura conciliativa), dal “rifiuto o dal mancato accordo” decorre il termine di decadenza fissato in sessanta giorni, senza che possa invocarsi l’ulteriore termine sospensivo di 20 giorni previsto dall’art. 410 c.p.c., comma 2, e senza che il rifiuto di aderire alla conciliazione debba essere comunicato alla Direzione Territoriale del Lavoro ovvero alla controparte.

Cassazione civile, sezione lavoro, ordinanza del 23.5.2019, n. 14057