Irragionevole durata del processo: erede che vuole far valere iure proprio il diritto all’indennizzo e danno economico rilevante

Con riferimento al caso dell’erede che voglia far valere iure proprio il diritto all’indennizzo va data continuità all’orientamento secondo cui ciò può avvenire solo per il superamento della predetta durata verificatosi con decorrenza dal momento in cui, con la costituzione in giudizio, quegli abbia assunto a sua volta la qualità di parte, non assumendo alcun rilievo, a tal fine, la continuità della stessa posizione processuale rispetto a quella del dante causa, prevista dall’art. 110 c.p.c., in quanto il sistema sanzionatorio delineato dalla CEDU e tradotto in norme nazionali dalla L. n. 89 del 2001, non si fonda sull’automatismo di una pena pecuniaria a carico dello Stato, ma sulla somministrazione di sanzioni riparatorie a beneficio di chi dal ritardo ha ricevuto danni patrimoniali e non patrimoniali, mediante indennizzi modulabili in relazione al concreto paterna subito, che presuppone la conoscenza del processo e l’interesse alla sua rapida conclusione.

Non ogni “fatto” che accade nel periodo di irragionevole durata del processo e determina un danno deve ritenersi causativo, unitamente alla durata del giudizio, del pregiudizio prodottosi, e quindi indennizzabile ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, posto che, in forza del principio della causalità adeguata, devono ritenersi causa dell’evento solo quegli accadimenti che ne sono la causa diretta, con la conseguenza che i fatti sopravvenuti interrompono il nesso di causalità quando siano di per sè sufficienti a determinare l’evento. Pertanto, il danno economico può essere ricollegato al ritardo nella definizione del processo solo se sia l’effetto immediato di tale ritardo e a condizione che vi si riconnetta sulla base di una normale sequenza causale.

 

Cassazione civile, sezione sesta, sentenza del 16.1.2017, n. 824

…omissis…

Va preliminarmente esaminata l’eccezione di tardività del controricorso dedotta dai ricorrenti nella memoria illustrativa per essere stato loro notificato dopo la scadenza del termine prescritto dall’art. 370 c.p.c., comma. Essa è infondata.

Il ricorso è stato infatti notificato il 12 gennaio 2015 ed il controricorso è stato consegnato all’ufficio postale il 23 febbraio 2015, venuto a scadere il termine dei quaranta giorni il 21 febbraio 2015, in una giornata di sabato, tenuto conto che il computo dei termini di cui all’art. 155 c.p.c., comma 4, trova applicazione anche nei giudizi di equa riparazione.

E’ appena il caso di sottolineare che, al fine di accertare la tempestività della notificazione, per il notificante occorre avere riguardo, a seguito delle note sentenze della Corte costituzionale n. 477 del 2002 e n. 28 del 2004, alla data in cui il notificante stesso ha consegnato l’atto da notificare all’ufficiale giudiziario o all’ufficio postale, nel caso in cui la notificazione avvenga a mezzo del servizio postale.

Venendo all’esame del ricorso, a sostegno del primo motivo i ricorrenti deducono la violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, nel computo della durata irragionevole del giudizio presupposto che avrebbe dovuto riguardare anche il periodo successivo al decesso del de cuius (12.2.2009) e fino alla conclusione del processo (28.6.2013). In altri termini, la corte di merito avrebbe escluso la loro qualità di parti nel giudizio presupposto, senza tenere conto che la Corte di legittimità ha ritenuto l’esistenza del paterna d’animo a prescindere dalla costituzione in giudizio del soggetto.

Il motivo non può trovare ingresso.

Gli approdi cui è pervenuta la giurisprudenza di legittimità con riferimento al caso dell’erede che voglia far valere iure proprio il diritto all’indennizzo – e cui il Collegio intende dare continuità, condividendone le motivazioni – sono nel senso che ciò può avvenire solo per il superamento della predetta durata verificatosi con decorrenza dal momento in cui, con la costituzione in giudizio, quegli abbia assunto a sua volta la qualità di parte, non assumendo alcun rilievo, a tal fine, la continuità della stessa posizione processuale rispetto a quella del dante causa, prevista dall’art. 110 c.p.c., in quanto il sistema sanzionatorio delineato dalla CEDU e tradotto in norme nazionali dalla L. n. 89 del 2001, non si fonda sull’automatismo di una pena pecuniaria a carico dello Stato, ma sulla somministrazione di sanzioni riparatorie a beneficio di chi dal ritardo ha ricevuto danni patrimoniali e non patrimoniali, mediante indennizzi modulabili in relazione al concreto paterna subito, che presuppone la conoscenza del processo e l’interesse alla sua rapida conclusione (v. di recente, Cass. n. 8508 del 2016 e Cass. n. 4003 del 2014).

Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, e dell’art. 6, par. 1 della Convenzione EDU per non avere la corte di merito riconosciuto il danno patrimoniale da dimissioni forzate, pur essendovi stato il omissis costretto a seguito della sua sospensione automatica dal servizio effettuata dal Ministero della giustizia. Non corrisponde al vero che il processo sarebbe iniziato solo nell’anno 1996, come affermato dalla corte distrettuale, e le sue dimissioni sarebbero intervenute l’anno successivo, dal momento che le indagini preliminari erano iniziate nel 1994.

Con il terzo ed il quarto mezzo i ricorrenti nel lamentare la violazione degli artt. 115, 116 e 167 c.p.c., per non avere la corte territoriale tenuto conto che, dopo la sospensione automatica dalle funzioni e dallo stipendio, il omissis era stato costretto a dimettersi dalla magistratura per poter godere di una retribuzione adeguata e a causa del protrarsi del giudizio penale, venuto egli a mancare prima della definizione del giudizio presupposto, non aveva potuto ottenere di rientrare nell’Ordine Giudiziario e ciò proprio a causa della durata del processo, proseguito dopo la sua morte. Il danno patrimoniale, proseguono i ricorrenti, consisterebbe nella differenza tra l’importo percepito a titolo di pensione e quello che avrebbe potuto percepire a seguito del rientro in servizio e la ricostruzione della carriera. Nell’argomentare la reiezione della domanda la corte di merito non avrebbe tenuto in alcun conto le prove articolare dalle parti sul punto e soprattutto non avrebbe fatto buon uso del principio di non contestazione.

Con il quinto mezzo i ricorrenti denunciano la violazione dell’art. 116 c.p.c., art. 2056 c.c., comma 2, e art. 1226 c.c., in relazione al danno per mancato rientro in magistratura per non avere la corte territoriale applicato il principio dell’interpretazione secondo equità.

Le censure da due a cinque – vertendo sulla medesima questione della esistenza del danno patrimoniale da mancato “rientro in magistratura” del de cuius, seppure prospettata sotto diversi profili – vanno trattate congiuntamente. Esse sono infondate.

Con riguardo al danno patrimoniale lamentato dai ricorrenti, questa Corte ha già chiarito che non ogni “fatto” che accade nel periodo di irragionevole durata del processo e determina un danno deve ritenersi causativo, unitamente alla durata del giudizio, del pregiudizio prodottosi, e quindi indennizzabile ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, posto che, in forza del principio della causalità adeguata, devono ritenersi causa dell’evento solo quegli accadimenti che ne sono la causa diretta, con la conseguenza che i fatti sopravvenuti interrompono il nesso di causalità quando siano di per sè sufficienti a determinare l’evento.

Pertanto, il danno economico può essere ricollegato al ritardo nella definizione del processo solo se sia l’effetto immediato di tale ritardo e a condizione che vi si riconnetta sulla base di una normale sequenza causale (v., tra le altre, Cass. n. 14775 del 2013; Cass. n. 4032 del 2009).

Nella specie, i ricorrenti si limitano genericamente a rilevare che il danno stesso sarebbe sostanzialmente insito nella durata del procedimento penale e nella incidenza negativa sul patrimonio del loro dante causa, quanto al trattamento economico.

Tuttavia, come affermato dagli stessi ricorrenti, la scelta di dimettersi dalla magistratura sarebbe stata maturata dal omissis per poter percepire la pensione e così evitare gli effetti economici negativi conseguenti alla sospensione dal servizio. Dunque il pregiudizio che i ricorrenti adducono di avere sofferto per effetto della irragionevole durata del giudizio presupposto non può ritenersi effetto diretto e immediato di tale irragionevole durata, trovando fondamento nella statuizione contenuta nel provvedimento di sospensione dal servizio adottata dal Ministro a seguito dell’avvio del procedimento penale, esso sì causa del pregiudizio lamentato, ma in relazione al quale i dante causa dei ricorrenti avrebbe dovuto attivare i rimedi specifici previsti dall’ordinamento.

Con i motivi dal sesto al nono i ricorrenti – nel lamentare la violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, commi 1 e 2, degli artt. 6 e 41 della Convenzione EDU, degli artt. 24 e 111 Cost., degli artt. 115, 116 e 167 c.p.c., infine degli artt. 1226 e 2056 c.c. – si dolgono che il giudice territoriale abbia negato il risarcimento collegato al danno all’immagine ed esistenziale, ritenendo che lo stesso non fosse derivato dalla durata del processo ma solo dall’esistenza del processo medesimo, pur non essendo stato contestato da alcuno la sua sussistenza.

Detti quattro motivi – che in quanto basati su argomentazioni del tutto simili (quali la denuncia della violazione delle norme regolanti l’onere della prova ed il nesso causale tra i dedotti pregiudizi al patrimonio ed all’immagine) possono essere esaminati congiuntamente – sono infondati.

Il provvedimento impugnato, negando ai dedotti danno all’immagine, danno esistenziale e danno morale la natura di autonome categorie di danno, ha rilevato che il danno esistenziale non costituisce una categoria autonoma di pregiudizio, rientrando nel danno non patrimoniale già liquidato; mentre il danno all’immagine, che non è presunto, viene dedotto in termini tali da risultare riferibile alla vicenda che ha visto coinvolto il de cuius e all’avvio del giudizio penale, non alla loro durata.

In base alle considerazioni che precedono, non ricorrono gli estremi della violazione delle norme di diritto indicate dai ricorrenti, che risultano invece essere state correttamente applicate (per il danno biologico, che non è presunto, v. Cass. 16 marzo 2007 n. 6294 e per il danno esistenziale v. Cass., sez. un., 16 febbraio 2009 n. 3677) all’esito degli accertamenti e delle valutazioni in fatto compiute dai giudici della Corte di appello. La domanda di risarcimento del danno all’immagine è stata respinta, non perchè considerata duplicato di quella volta al risarcimento del danno morale soggettivo, ma perchè ritenuta non provata dalla Corte di appello nell’esercizio del suo potere di accertamento dell’esistenza dei presupposti di fatto della domanda medesima sotto il profilo del nesso di causalità con la violazione del temine ragionevole di durata del processo. I ricorrenti a fronte di tali argomentazioni si limitano ad affermare che la categoria di danno cui hanno fatto riferimento rientra nell’ambito dei diritti inviolabili della persona, senza tuttavia dimostrarlo.

Con il decimo motivo i ricorrenti deducono la violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, comma 3, quanto alla determinazione dell’importo da liquidare per avere limitato la somma dovuta per anno ad Euro 2.000,00 secondo una erronea interpretazione dell’art. 2, comma 1, della legge citata.

La piana esegesi letterale e – ad un tempo – l’interpretazione teleologica della L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, comma 3, – inserito dal D.L. n. 83 del 2012, art. 55, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni in L. n. 134 del 2012, escludono che il limite di liquidazione ivi fissato si riferisca alla (sola) misura dell’indennizzo annuo e non (anche) a quella dell’indennizzo totale.

La tesi di parte ricorrente appare contraria al testo della norma, che così recita: “(l)a misura dell’indennizzo, anche in deroga al comma 1, non può in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice”. La congiunzione anche e la locuzione in ogni caso rendono evidente che il limite del valore della causa si riferisca alla somma totale liquidabile. Se le parole hanno un senso, anche e in ogni caso significano, all’interno dell’unico periodo di cui consta il comma 3, rispettivamente che il limite all’indennizzo correlato al valore della causa va oltre la sola liquidazione per anno di ritardo, e costituisce la soglia massima che l’equa riparazione non può comunque eccedere. La norma in commento potrebbe avere il significato proposto dalla parte ricorrente solo a patto di elidere l’una e l’altra espressione; la cui presenza, per contro, confuta senza possibilità di equivoco la censura in esame.

Identico l’approdo cui perviene l’interpretazione teleologica. Scopo della norma, che positivizza un’esigenza avvertita, sia pure con accenti e tecniche differenti, tanto nella giurisprudenza della Corte EDU (v. sentenza 21 dicembre 2010, divenuta definitiva il 20 giugno 2011, nel caso Gaglione ed altri c. Italia) quanto nei precedenti di questa Corte Suprema (cfr. Cass. n. 633 del 2014 e Cass. n. 12937 del 2012) è di evitare il rischio di sovracompensazioni, se non addirittura di occasionali e insperati arricchimenti. Come questa Corte ha già avuto modo di affermare più volte, sia pure ad altri fini (id est, in materia di successione mortis causa nel giudizio presupposto), il sistema sanzionatorio delineato dalla CEDU e tradotto in norme nazionali dalla L. n. 89 del 2001, si fonda non sull’automatismo di una pena pecuniaria a carico dello Stato, ma sulla somministrazione di sanzioni riparatorie a beneficio di chi dal ritardo abbia ricevuto danni patrimoniali o non patrimoniali, mediante indennizzi modulabili in relazione al concreto paterna subito (cfr. fra le tante, Cass. n. 13083 del 2011 e Cass. n. 23416 del 2009).

Del resto la corte territoriale ha liquidato, con adeguata motivazione – in assenza di ricorso incidentale dell’amministrazione resistente -, più dell’importo massimo previsto dalla norma invocata e ciò basta a fare ritenere ragionevole il quantum indennizzato, dal momento che questa Corte ha affermato la legittimità di una liquidazione dell’indennizzo compresa tra Euro 500,00 e Euro 1.500,00 ad anno (Cass. n. 22772 del 2014), osservando, altresì, che sono manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 117 Cost., comma 1, in relazione all’art. 6, par. 1, della CFDU, riguardanti la L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2-bis, nella parte in cui limita la misura dell’indennizzo in una somma di denaro, non inferiore a Euro 500 e non superiore a Euro 1.500 Euro, atteso che detti criteri di liquidazione recepiscono le medesime indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte E.D.U.

Con l’undicesimo motivo i ricorrenti lamentano la violazione degli art. 1219 c.c., comma 2, n. 1, artt. 1224 e 2043 c.c., della L. n. 89 del 2001, art. 2, dell’art. 111 Cost., e dell’art. 6 della Convenzione EDU per avere la corte territoriale erroneamente determinato gli interessi dovuti dal momento della proposizione della domanda e non dalla verificazione del danno.

Anche tale motivo è infondato.

Questa Corte ha, infatti, già chiarito che gli interessi sulla somma liquidata a titolo di equa riparazione per superamento della ragionevole durata del processo ai sensi della L. n. 89 del 2001, vanno riconosciuti dal momento della domanda azionata dinanzi alla Corte d’appello, e non già a decorrere dal superamento della ragionevole durata (v. Cass. 2382 del 2003; Cass. n. 1405 del 2004 e Cass. n. 21390 del 2005).

Con il dodicesimo ed ultimo motivo i ricorrenti denunciano la violazione degli artt. 2 e 19 e del punto 12 dell’Allegato al D.M. n. 55 del 2014, in merito alle tariffe applicate per la determinazione degli onorari e compensi di causa. In altri termini la corte di merito nell’applicare lo scaglione per la liquidazione degli onorari ha preso in considerazione quello per i procedimenti ingiuntivi dinanzi al Tribunale sia per la prima fase sia per la fase di opposizione, mentre avrebbe dovuto fare applicazione dello scaglione di riferimento ai giudizi dinanzi alla Corte di appello.

Anche l’ultimo motivo è infondato.

Pur vero che per costante orientamento di questa Corte il procedimento di equa riparazione è configurato come procedimento di tipo contenzioso, ancorchè destinato a svolgersi nelle forme camerali (cfr Cass. n. 17602 del 2016), tuttavia non risulta violato lo scaglione di valore applicabile con riferimento all’autorità giudiziaria procedente se si tiene conto della previa riduzione del 70% del compenso per la fase istruttoria e del 50% dell’importo derivante dalla somma dei compensi previsti per le singole fasi, come prevista nel D.M. n. 140 del 2012, modalità di liquidazione riconosciuta anche nel D.M. n. 55 del 2014.

In conclusione, il ricorso va rigettato.

Le spese di lite seguono la soccombenza.

Rilevato che dagli atti il processo risulta esente dal pagamento del contributo unificato, non si applica il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

 pqm

La Corte, rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido alla rifusione delle spese del giudizio di Cassazione in favore dell’Amministrazione, che liquida in complessivi Euro 892,50, oltre a spese prenotate e prenotande a debito.