La dichiarazione di rimettersi al giudice non è acquiescienza

Si ha, infatti, mutatio libelli quando si avanzi una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum diverso e più ampio oppure una causa petendi fondata su fatti mai prospettati prima, sottoponendo in tal modo al giudice un nuovo tema d’indagine e spostando i termini della controversia, con l’effetto di ampliare non già l’oggetto del pronuntiare, ma anche quello del cognoscere (principi pacifici: da ultimo, in tal senso, Sez. 3, sentenza 24.4.2015 n. 8394).

Nessun ampliamento del cognoscere demandato al giudice si ha, tuttavia, quando il convenuto dapprima dichiari di volersi “rimettere alla giustizia” circa una domanda attorea, e successivamente – in corso di causa o in appello – decida di sostenere o contrastare una determinata questione di diritto, ma non di fatto (come appunto l’interpretazione d’una norma, la qualificazione d’un contratto, l’individuazione degli effetti giuridici d’un negozio).

La dichiarazione di “rimettersi al giudice” o similare, infatti, non costituisce acquiescenza alla domanda attorea, non essendo concepibile una acquiescenza preventiva. Quella dichiarazione significa semplicemente richiedere al giudice la corretta applicazione al caso concrete delle norme di legge che Io disciplinano, secondo il principio iura novit curia. Pertanto la formula predetta non può valere come sostanziale manifestazione di disinteresse di una parte all’esito del giudizio, nè come preventiva accettazione di una qualsiasi pronunzia.

 

Cassazione civile, sezione terza, sentenza del 18.01.2016, n. 668