Atti scarni e mancato deposito delle memorie: possono essere indici del carattere dilatorio dell’opposizione. Sì alla condanna ex art. 96 comma III c.p.c.
L’art. 96 comma III c.p.c. introduce un meccanismo che, sulla scia della dottrina e delle prime pronunce della giurisprudenza, deve ritenersi non solo e non tanto risarcitorio, quanto anche e soprattutto sanzionatorio (in virtù della finalità di scoraggiare l’abuso del processo e preservare la funzionalità del sistema giustizia), e come tale sottratto (a differenza dell’ipotesi di cui all’art. 96, comma I, c.p.c.) dalla rigorosa prova del danno, essendo lo stesso condizionato unicamente all’accertamento di una condotta di grave negligenza o addirittura malafede processuale della parte. Scopo della norma è la repressione del danno che viene arrecato direttamente alla controparte (si pensi all’allungamento della tempistica nell’esercizio dei propri diritti ma si pensi – nel caso delle imprese – alla necessità di affrontare oneri aggiuntivi, quale l’appostamento di un “fondo rischi” per i crediti incagliati o in sofferenza, oppure l’incremento delle difficoltà e dei costi dell’accesso al finanziamento bancario, ad esempio, con lo strumento delle anticipazioni su fatture), ma indirettamente anche all’erario con la congestione degli uffici giudiziari e l’incremento del rischio del superamento della canone costituzionale della ragionevole durata del processo con ricadute anche di tipo risarcitorio, stante il pericolo di condanna dello Stato alla corresponsione dell’indennizzo ex L. n. 89 del 2001 [Nella specie, l’atteggiamento processuale dell’opponente di notificare una scarna citazione che non era accompagnata da alcun documento rilevante né corredata da alcuna istanza istruttoria specifica; e la successiva condotta, di non depositare, nonostante formale richiesta, alcuna memoria 183 c. 6 c.p.c. costituiscono evidenti indici del carattere dilatorio dell’opposizione e sintomi – quantomeno – di una grave negligenza nell’utilizzo dello strumento processuale medesimo] [Tribunale di Milano, sezione quarta, sentenza del 20.05.2015].